Era il nono o forse l’undicesimo secolo e nel cuore della Sicilia dominata dagli arabi si ergeva l’imponente castello di Pietrarossa, una fortezza con torri in mattoni, arroccata in posizione dominante e circondata dalle mura di difesa con i camminamenti presidiati dai soldati. Al suo interno c’erano giardini e campi coltivati: era talmente grande da poter ospitare circa trecento nuclei familiari e un presidio di settanta soldati con le relative famiglie. Gli arabi lo chiamavano Qal’at an-nisah, il castello delle donne, alludendo al fatto che queste vi erano lasciate sole mentre i loro uomini lavoravano la terra. Secondo la tradizione, dietro quelle mura ben protette era custodito l’harem dell’emiro. Qui le donne trascorrevano le loro vite isolate dal mondo esterno e si dedicavano alla cura della bellezza ma anche all’apprendimento di arti quali la musica e il ricamo. Pare che alcune amassero cucinare, rielaborando ricette già esistenti ed inventandone di nuove. Fu così che ad un’antica ricetta romana citata da Cicerone, riguardante un “Tubus farinarius dulcissimo edulio ex lacte fartus” (in pratica un cilindro di cialda ripieno di ricotta e miele), aggiunsero ingredienti tipici della cucina araba. Ottennero così un dolce molto buono, dalla forma allungata che forse alludeva alla virilità dell’uomo, per gioco o per buon augurio di fortuna e fecondità.
Con la conquista della Sicilia da parte dei Normanni gli harem furono sciolti e alcune donne musulmane si ritirarono nei monasteri dove tante cose impararono e tante ne condivisero; talvolta cucinavano per la loro piccola comunità e talvolta insegnavano alle loro consorelle le ricette che conoscevano. Fu così che in un convento di clausura nei pressi di Caltanissetta, durante i festeggiamenti del carnevale, le monache iniziarono a preparare un dolce a forma cilindrica ripieno di una crema di ricotta di capra addolcita con miele ed arricchito con granella di mandorle. Per ottenere quella forma, durante la preparazione l’impasto veniva arrotolato attorno ad una canna di fiume e il risultato sembrava a sua volta una piccola canna, un cannolo.
Questo dolce fu così apprezzato che ben presto si diffuse oltre i confini di Caltanissetta e oltre il periodo del carnevale; entrò nelle pasticcerie di Palermo e Messina, dove la sua ricetta fu rivista ed arricchita con l’aggiunta di ingredienti come le gocce di cioccolato; entrò nei sonetti di un poeta palermitano del XVII secolo, che lo definì “scettru d’ogni Re” e “virga di Mosè”, affermando pure che “Cu li disprezza è un gran curnutu affè!”. Entrò nelle case della gente al punto che Giuseppe Pitrè, famoso scrittore, letterato e antropologo italiano, noto soprattutto per i suoi studi sulle tradizioni popolari siciliane, ne parlò nel suo “Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano”, edito per la prima volta nel 1889:
“Ma più gradito di qualunque altro cibo carnevalesco è il cannòlu, boccone ghiotto di popolani, di borghesi e di nobili, desiderato da poveri e da ricchi. Il cannòlu è un cialdone pieno, una pasta dolciastra fritta e tenerissima, accartocciata a forma di grosso cannella o bocciuolo, che si riempie di una squisita crema di latte, zucchero o giulebbe, cioccolata, pistacchio ed altri simili ingredienti. Senza il cannòlu che cosa è il banchetto carnevalesco se non un mangiar senza bere, un murare a secco, lo stare al buio in una conversazione ? […] il cannolo è l’ultima portata, è la corona del pranzo carnevalesco”
Dell’antico castello di Pietrarossa, le cui pietre sono state utilizzate per costruire gli edifici e le strade di Caltanissetta, non sono rimasti solo i ruderi: tra le sue storie e tradizioni è sopravvissuta anche la ricetta di un dolce destinato a diventare una delle specialità dell’arte pasticcera italiana più conosciute ed apprezzate nel mondo.
Ingredienti per la farcitura
1 kg di ricotta (possibilmente di pecora)
500 g di zucchero
latte q.b.
vaniglia q.b.
Ingredienti per decorare
pistacchio ridotto a granella oppure graniglia di mandorla abbrustolita oppure gocce di cioccolato fondente oppure mezza ciliegia candita oppure filetti di scorza d’arancia.
zucchero a velo finissimo
cannella q.b.
Ingredienti per le cialde (dette scorze)
200 g di farina 00
20 g di zucchero
2 uova
20 g di strutto
sale q.b.
un cucchiaio di Marsala o Rum
strutto o olio d’oliva per la frittura q.b.Preparazione
Amalgamare insieme farina, strutto, zucchero, albume, un pizzico di sale e aggiungere un cucchiaio di Marsala. Tirare la pasta con un mattarello fino ad ottenere uno spessore omogeneo di qualche millimetro; con uno stampo (può andare bene anche una tazza) ricavare dei dischi del diametro di 10 cm. Ungere i cannelli con lo strutto e avvolgervi i dischi di pasta con i lembi leggermente sovrapposti e pennellati con l’albume d’uovo o con dell’acqua in modo da “incollarli”. Friggere il tutto (possibilmente nello strutto) fino a quando assumeranno il classico colore dorato. Lasciarle riposare su carta assorbente e, appena fredde, liberare le scorze dal cannello con delicatezza.
Addolcire la ricotta fresca con lo zucchero sbattendola con la forchetta. Aggiungere una spolverata di vaniglia, un goccio di latte e amalgamare fino ad ottenere una crema omogenea senza grumi. Si introduce nel cannolo con l’apposita sacca a poche attrezzata di bocchetta o, in mancanza, con un coltello senza punta.
Spolverare la scorza di zucchero a velo e un pizzichino di cannella e guarnire la crema alle estremità del cannolo con gli ingredienti preferiti tra graniglia di mandorla, pistacchio, gocce di cioccolato fondente, etc.
I cannoli sono pronti per essere assaporati. Non lasciamoli lì a riposare per troppo tempo: la ricotta tende a impregnare la cialda, facendole perdere la tua croccantezza. Per evitare questo inconveniente alcuni pasticcieri hanno trovato il modo di “isolare” la cialda dall’umidità, rivestendone la superficie interna con cioccolato fuso.
Buon appetito!
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