“Carbonaio, a Bondone […] in piazza alla Levata c’è un bel monumento a te dedicato che testimonia il tuo passato” (G. Capelli).
Appena arrivati a Bondone, in piazza alla Levata, saltano all’occhio le tre statue di bronzo realizzate da don Luciano Carnessali ed inaugurate nel 2002 dall’Arcivescovo di Trento. Quella in primo piano raffigura una bambina accucciata accanto ad una capretta; alle sue spalle ci sono un uomo con una fascina in braccio ed una grande catasta di legno, detta “poiat”.
La bambina sembra quasi abbracciare la capretta con un trasporto affettuoso; probabilmente è cresciuta giocando con lei e bevendone il latte e quel contatto le è familiare. La capretta ha lo sguardo rivolto ai passanti con fiducia e curiosità: è abituata a questa vicinanza e sa che nessuno le farà del male.
L’uomo guarda la bambina accennando un sorriso tra i baffi folti. Dalla sua espressione si capisce che è il padre. C’è un’ ombra di stanchezza sul suo viso indurito dal sole e dal freddo. Le mani callose e forti tengono una fascina di legno, incuranti dei graffi sulle braccia; è un carbonaio.
Il poiat sembra una costruzione bizzarra ma è una carbonaia e per realizzarla ci sono volute molta fatica, perizia e pazienza: all’interno di esso avviene la lenta combustione che trasforma il legno in carbone vegetale e basta una leggerezza per vanificare il lavoro trasformandolo in cenere.
Il trittico racconta una storia lunga secoli, uno spaccato di vita che le famiglie di Bondone conoscono bene. Lo testimoniano le foto in bianco e nero affisse nelle sale del castello di San Giovanni, che ritraggono gruppi di persone con il viso scarno ma illuminato da un sorriso semplice. Sono famiglie numerose, raccolte intorno al loro parroco, don Mansueto Bolognani, che in estate era solito andarle a trovare, offrendo parole di conforto ed una benedizione e ricevendo in cambio ospitalità eccezionale e doni fatti col cuore.
Sono le famiglie che agli ultimi di marzo, quando sulle cime c’era ancora la neve, lasciavano Bondone portandosi appresso qualche utensile, magari un sacco di farina e la capretta, per andare a lavorare nei boschi facendo il carbone.
Partivano tutti insieme, con la madre che portava in collo l’ultimo nato, ed i più grandicelli chiudevano la fila. Salivano insieme su per i sentieri di montagna, tra i boschi, e andavano a vivere in una piccola capanna rivestita di frasche, dove al posto dei letti c’erano giacigli con il materasso fatto di rami di abete e foglie di mais. Nel focolare venivano preparati la polenta e minestre povere.
La giornata dei carbonai iniziava ben prima dell’alba ed anche i più piccoli davano una mano, magari tenendo le lanterne per far luce agli altri. Su uno spiazzo aperto e pianeggiante, chiamato “ial”, per prima cosa realizzavano un camino, piantando un palo attorno al quale costruivano una torretta di legni intrecciati, detta “castel”. Nei boschi risuonavano i rumori dei “segù”, usati per tagliare i tronchi più grossi, e dei “manaròt”, le scuri, e dei “poeta”, le roncole. I grandi tronchi caduti al suolo erano fatti a pezzi che venivano raccolti, trasportati ed ordinatamente accatastati intorno al “castel”. Il poiat cresceva fino a raggiungere un’altezza di oltre due metri , un diametro di cinque ed un peso di oltre trenta quintali, tutto portato a braccia. Poi doveva essere ricoperto di fogliame e terra per diversi centimetri , per isolare la struttura in modo che la combustione del legno avvenisse in assenza di ossigeno. Infine, dopo aver acceso un piccolo falò a parte, i carbonai si arrampicavano sulla cima del poiat con una scaletta di legno, sfilavano il palo centrale dalla struttura e riempivano lo spazio così liberato con la brace, compattandola il più possibile.
Dopo aver coperto anche la sommità del poiat con foglie e terra, iniziavano “la guardia”, controllando notte e dì, per molti giorni di seguito, che la legna non si trasformasse in cenere ma in carbone, che avrebbero poi trasportato e venduto.
I carbonai trascorrevano al lavoro in montagna lunghi mesi faticosi, durante i quali alte nuvole di fumo bianco si alzavano nel cielo dal poiat, segnalando la loro presenza a chilometri di distanza. A novembre facevano ritorno nelle loro case a Bondone.
Tra la prima e la seconda guerra mondiale il carbone vegetale aveva alimentato le locomotive, le caldaie delle navi e le cucine delle abitazioni; quando fu sostituito dal gas e da altri combustibili, le fatiche dei carbonai divennero praticamente inutili.
“Carbonaio, a Bondone il tuo lavoro non lo fanno più” recita una poesia di Gianpaolo Capelli; tuttavia, cercando tra le montagne trentine e lombarde o nei boschi calabresi, se ne può trovare ancora qualcuno. Hanno mani forte e callose, il viso stanco indurito dal sole e dal freddo e lo sguardo profondo di chi ha molte storie da raccontare.
Città Bondone
Provincia Trento
Regione Trentino-Alto Adige
Coordinate GPS 45°48′N 10°33′E
Come arrivare
In auto: da Trento. Seguire la SS45bis Strada Gardesana di Trento fino a Sarche; entrare nella SS237 – Strada Statale del Caffaro fino a Storo; infine seguire la SP69 fino a destinazione.
In autobus: è possibile trovare informazioni relative ai servizi di trasporto urbano ed extraurbano sul sito internet: http://www.comune.bondone.tn.it/.
Cosa visitare nei dintorni
– Castel San Giovanni di Bondone
– Anfo
Per saperne di più
È possibile trovare molte informazioni sulla figura del carbonaio sul sito internet: http://www.visitbondone.it/.
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