Situata a metà strada tra Milano e Bergamo, Trezzo sull’Adda si è sviluppata su un promontorio verdissimo e ricco di storia, le cui vicende sono intimamente connesse al ruolo che il fiume Adda ha avuto nel corso dei secoli.
Prima che venisse imbrigliato dalle centrali idroelettriche il fiume Adda era un fiume impetuoso: il suo nome, di origine celtica, vuol dire “acqua che corre”; le sue correnti forti ed insidiose e la sua larghezza mai inferiore agli ottanta metri ne facevano un fiume non guadabile a piedi e difficilmente attraversabile senza un ponte: per queste sue caratteristiche l’Adda era un importante confine naturale. Là dove il suo andamento tortuoso disegna una doppia ansa, delle quali una stretta a gomito che delimita un promontorio verde e scosceso, si insediarono antichi popoli, sapendo che nel fiume avrebbero trovato acqua, cibo e protezione ed anche una via di comunicazione da sfruttare per il trasporto di materiali da costruzione e per il commercio. Prima i celti, che chiamavano il promontorio “trec”, da cui deriva “Trezzo”, poi i romani e dopo ancora i longobardi ne apprezzarono la ricchezza di risorse e la posizione strategica per il controllo del territorio.
Gli scavi archeologici effettuati alla fine del secolo scorso hanno riportato alla luce alcune sepolture longobarde maschili con arredi molto ricchi, tra cui croci d’oro di splendida fattura, brandelli di tessuto in broccato con i bordi dorati e anelli-sigillo con iscrizioni personalizzate, che ci fanno pensare che i defunti qui seppelliti fossero nobili d’alto rango e funzionari reali, i famosi gastaldi. Tra questi, Rodchis, il “vir illustris”, così definito dal suo anello-sigillo, era un omone alto più di due metri e, per farlo stare all’interno della tomba, fu tumulato con la testa reclinata e le gambe piegate. Un altro fu al servizio del re Rotari, un re longobardo, grande guerriero e legislatore, vissuto nel VII secolo dopo Cristo; a sua suocera, la regina Teodolinda, la tradizione attribuisce la costruzione delle prime fortificazioni. Queste, nel tempo, furono più volte abbandonate o distrutte e poi ricostruite per diventare quello che noi oggi conosciamo come il castello di Trezzo sull’Adda.
Anche Federico Barbarossa, imperatore del Sacro Romano Impero, mise mano all’antica rocca, ampliandola e facendo erigere tre torri massicce: da qui poteva comodamente organizzare le incursioni contro Milano, colpevole di usurpare i diritti imperiali imponendosi con la forza alle città vicine. Fu così che il fulvo imperatore venne a stabilirsi a Trezzo, che all’epoca era un centro fiorente con quattro porte di accesso, delle quali oggi rimane quella di Santa Maria, e numerosi ponti di legno che attraversavano l’Adda. Per questo i milanesi assediarono e distrussero il castello di Trezzo nel 1167. Successivamente divenne proprietà della famiglia guelfa dei della Torre, detti anche Torriani, proprio al confine con i possedimenti della famiglia ghibellina Visconti. Una terra di confine, si sa, è spesso anche terra di conquista e Trezzo sull’Adda passò di nuovo di mano nella prima metà del XIV secolo.
Sotto il dominio di Bernabò Visconti il castello conobbe il suo massimo splendore: nuovi spalti e punti di vedetta guardavano ad est, verso la bergamasca, mentre, rivolto al borgo, il mastio, unica torre centrale, era circondato da mura merlate e acceduto da un ponte levatoio. Bernabò prese stabile dimora al castello, che divenne la sua corte; era un uomo colto, affascinante e di bell’aspetto, che amava circondarsi di belle donne; sapeva anche dimostrarsi crudele e spietato, come testimoniato da fatti storici e numerose leggende, una delle quali narra che si liberasse delle amanti di cui si era stufato gettandole in un pozzo comunicante direttamente con le acque del fiume Adda, e sul cui fondo c’erano delle lame affilate che avrebbero smembrato i corpi delle malcapitate prima di riversarli tra le correnti. Quelle lame, in realtà, dovevano solo impedire l’accesso al castello ad eventuali assalitori venuti dal fiume.
Bernabò fece scavare profonde gallerie in modo da trasformare delle grotte naturali nei sotterranei del castello, dove, secondo la leggenda, sarebbe nascosto l’inestimabile tesoro del Barbarossa. Sono enormi ambienti suggestivi, umidi e freddi, utilizzati probabilmente come depositi dei viveri e prigioni. Una di queste stanze era adibita a stanza della tortura, dove i prigionieri venivano legati e sottoposti al lento supplizio della goccia che, cadendo ad intervalli regolari sulla fronte della vittima immobilizzata, ne scavava lentamente il cranio.
Questi ambienti sono ancora visitabili e vi si accede accompagnati da una guida, tramite una scalinata trecentesca di gradini di pietra e mattoni un po’ sconnessi.
Tra fatti accaduti, aneddoti e leggende la guida fa rivivere gli avvenimenti di quei tempi così lontani, aiutandoci a dare una lettura critica a ciò che vediamo ed a comprendere come sia affascinante e lungo il processo che porta alla ricostruzione di un periodo storico. Infine, con una torcia, illumina una parete raccontando come, nelle fredde giornate di dicembre, quella si macchi di un colore rosso scuro: secondo una leggenda è il sangue delle vittime della crudeltà di Bernabò ma più probabilmente si tratta di un fungo dal colore un po’ inquietante, che trasuda dalle pareti sempre umide per la vicinanza del fiume.
Bernabò fece anche costruire un nuovo e meraviglioso ponte di pietra a campata unica, alto venticinque metri e largo otto, costruito su più livelli per permettere il passaggio separato di carri e pedoni. Era un vero capolavoro ingegneristico, con merlature e feritoie per essere meglio difendibile. Oggi non esiste più: fu distrutto meno di cinquant’anni dopo la sua costruzione per ordine del famoso condottiero Francesco Bussone, Conte di Carmagnola, con lo scopo di isolare alcuni avamposti nemici.
Le lotte di potere passano spesso attraverso congiure, intrighi e tradimenti: fu così che i sotterranei del castello divennero la prigione di colui che li aveva fatti costruire. Bernabò fu catturato con l’inganno dal nipote Gian Galeazzo: era il 6 maggio 1385 e avrebbe dovuto incontrare il nipote, invece ad attenderlo aveva trovato un esercito. Rinchiuso nelle segrete del suo stesso castello, vi rimase fino al 19 dicembre di quello stesso anno, quando assaporò la sua ultima cena: una scodella di zuppa di fagioli avvelenata. Bernabò morì tra indicibili dolori e nell’agonia trovò la forza di maledire il nipote: con il sangue scrisse sul muro della sua cella “tanto a me tanto a te”. Secondo la leggenda il diavolo in persona andò a far visita a Gian Galeazzo; la storia ci racconta che morì di peste pochi anni dopo.
Attraversiamo il parco del castello per entrare nella torre, a pianta quadrata ed alta quarantadue metri; ne saliamo le rampe spaziose e ben illuminate fino ad arrivare in cima. Di fronte a noi si apre un panorama a tutto tondo. Da una parte è piccola ma ben riconoscibile la torre Unicredit che si affaccia sulla Piazza Gae Aulenti di Milano; dall’altra sono inconfondibili Bergamo e i Corni di Canzo. Sotto di noi l’Adda è un nastro blu che si perde nel verde. Per secoli fu il confine tra due mondi contrapposti, i Longobardi contro gli Orobi, i Torriani contro i Visconti, il Ducato di Milano contro la Repubblica Serenissima di Venezia; ora è placidamente solcato da battelli che accompagnano i turisti a vedere folaghe, aironi cinerini, cigni, germani e svassi che nidificano all’interno del parco ed Ecomuseo Adda di Leonardo da Vinci, che si estende da Imbersago a Cassano d’Adda. Per anni Leonardo si è aggirato per queste rive con l’intendo di studiare il fiume: lo aveva ingaggiato Ludovico il Moro affinché lo rendesse navigabile e migliorasse il collegamento con Milano. Leonardo costruì delle chiuse tra Paderno d’Adda e Cornate, necessarie per rendere navigabile un tratto caratterizzato da potenti rapide e molti scogli; inoltre ideò un battello capace di attraversare il fiume sfruttando la sola forza della corrente per passare da una sponda all’altra sia all’andata che al ritorno: questo battello è ancora in funzione e collega Imbersago a Villa d’Adda.
Passeggiando sul lungofiume, immersi nel verde e nella pace, non è difficile capire perché Leonardo amasse questi panorami al punto da renderli immortali in alcune delle sue tele più famose, come la Vergine delle Rocce. Anche Alessandro Manzoni conosceva bene questi luoghi e vi ha ambientato gran parte dei Promessi Sposi.
Volgiamo infine lo sguardo dal fiume verso Trezzo, restando affascinati dall’armonia che lega la trecentesca torre viscontea alla sottostante centrale idroelettrica Taccani, novecentesca , splendido esempio di archeologia industriale e tuttora attiva. Fu costruita per generare l’energia necessaria al cotonificio del vicino villaggio industriale, il Villaggio Crespi, oggi patrimonio UNESCO. Costruita utilizzando la caratteristica pietra locale chiamata “ceppo dell’Adda”, la centrale Taccani si rispecchia bellissima sulle acqua increspate ed è un esempio tuttora valido di come la modernità possa integrarsi perfettamente con l’ambiente in cui è inserita.
Ora che i colori s’infiammano al tramonto, l’atmosfera si fa ancora più suggestiva e il mormorio del fiume ispira i versi che il Carducci ad esso dedicò:
“Corri, tra’ rosei fuochi del vespero,
corri, Addua cerulo”
Città Trezzo sull’Adda
Provincia Milano
Regione Lombardia
Coordinate GPS 45°36′N 9°31′E
Come arrivare
In auto: da Milano. Seguire l’Autostrada A4 in direzione di Venezia e uscire al casello di Trezzo S/A. Poi seguire i cartelli che indicano il centro città o il castello visconteo.
In autobus: Da Milano o da Bergamo è possibile prendere l’autobus autostradale e scendere alla fermata Trezzo. Per informazioni su orari e costi è possibile consultare il sito https://www.autostradale.it/
Cosa visitare nei dintorni
– Crespi d’Adda (BG), il villaggio operaio patrimonio UNESCO.
– Bergamo
– Castello di Malpaga (BG)
– Castello Albani a Urgnano (BG)
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